Sunday, September 10, 2006

diavoli griffati vol. 2

Attenzione: il post contiene diversi particolari del libro

È un piacere quando un libro supera le tue aspettative. Osservando il tacco con forcone sulla copertina dell’edizione economica di The Devil Wears Prada (Harper), Il diavolo veste Prada in italiano, credevo di trovarmi di fronte una storia sulla falsariga di I love shopping o qualcosa del tipo: giovane fashion victim non esita ad uccidere pur di ottenere l’ultimo paio di stivali Prada (o Manolo Blahnik, illustre sconosciuto per me che non ho una cultura di Sex & The City). Grande (e dolceamara) sorpresa è stata trovarmi nel bel mezzo di un incubo lavorativo che, anche se ben confezionato da Versace e co., non si allontana di molto da quello che qualunque giovane che voglia iniziare a lavorare si trova, o si troverà ad affrontare.

Il libro di Lauren Weisberger racconta gli undici mesi di Andrea (anzi, Ahn-dre-ah) come assistente di Miranda Priestly, direttrice della rivista-bibbia della moda Runway (scappa!, un nome una garanzia). Undici mesi di regno del terrore dove ogni impiegato deve vestire alla moda, ha un sacro terrore del proprio capo (stile sindrome di Stoccolma) e dove nessuno sembra voler affrontare la realtà: ovvero che il capo è una sfruttatrice piena di sé e senza alcun diritto di comportarsi in quel modo. Perché il lavoro di Andrea è un lavoro per cui a million girls would die for (un milione di ragazze morirebbero per averlo), un lavoro che dopo un anno di umiliazioni le spalancherà le porte di ogni luogo lei voglia lavorare grazie ai contatti di cui Miranda dispone. Poco importa se per lavorare come assistente (leggi: fare un lavoro che non ha niente a che vedere con l’editoria. Sfido chiunque a trovarmi il nesso tra portare i vestiti del capo in lavanderia e la stesura di un articolo) devi smettere di: dormire, mangiare, avere contatti con chiunque al di fuori del tuo cellulare.
Al di là del mondo della moda del cui, al pari della protagonista, me ne importa poco o niente, è naturalmente nella rappresentazione del diavolo Miranda che ci si deve concentrare. Perché Miranda
(diversamente dall’Uomo Nero) esiste. Magari con un nome diverso o con altri accessori (come Barbie), ma esiste. Esiste in ogni contratto sottopagato, in ogni azienda/ ufficio che pretende un laureato in ingegneria nucleare per farsi prenotare un volo, esiste nelle richieste di disponibilità, flessibilità e nelle note di abbigliamento che oltrepassano spesso il senso della misura (dai, che non è molto professionale andare in ufficio in costume da bagno ci arrivano tutti, ma da qui a decidere la misura delle spalline di una canotta…). Niente di nuovo? Purtroppo no. Il problema però non è solo nell’esistenza di Miranda, il problema è che tutti vogliono essere Miranda. Perché la maggior parte di noi, dopo aver “lavorato” in quel modo, spera solo di avere successo per potersi finalmente rivalere sugli altri. Forse, se le giovani fanciulle di Runway per una volta si fossero presentate in massa in scarpe da tennis, si fossero messe in sciopero (una bella azione collettiva!), forse qualcosa sarebbe cambiato. O forse no. Però ci avrebbero provato, perché se questa è la condizione di lavoro, non necessariamente deve essere quella giusta. Ma vallo a spiegare per chi si danna per uno straccio di lavoro (me compresa). Mors tua vita mea…

Tornando al libro: ho letto la versione originale in una settimana, quindi credo che la lettura in italiano sia ancora più scorrevole. L’impostazione, come molti libri contemporanei, è molto cinematografica. Immersi subito all’interno di una scena di ordinaria follia, il racconto poi diventa fluido e colloquiale (come stare al telefono con un’amica che ci parla male del capo!). I personaggi sono ben delineati anche se spesso diventano stereotipi (l’affascinante scrittore, lo stilista gay), ma credo sia più dovuto all’ambientazione nella casa di moda che non a un errore della scrittrice. Il vecchio detto tutti noi indossiamo una maschera qui calza a pennello.
Il finale lascia ben sperare: non il classico happy ending (che in un libro del genere sarebbe stato come una T-shirt del supermercato su una gonna Chanel, visto come imparo in fretta!?!?), ma un finale ottimista, perché bisogna continuare a cercare, sperare e soprattutto perché non vale la pena farsi mettere i piedi in testa, anche se fasciati da un paio di griffatissime Manolo Blahnik
PS: chiunque abbia detto che per essere belle bisogna soffrire è un idiota, anzi un sadico idiota


2 Comments:

Anonymous Anonymous said...

Allora l'hai finito! Ho provato quasi ribrezzo per certi atteggiamenti e l'ho provato semplicemente perchè alcune volte mi è capitato anche di essere trattata in modo poco carino dai superiori. Questo perchè come ho scritto sul mio blog, il potere distrugge sensibilità e dignità (di chi lo subisce).

5:16 PM  
Blogger innuendo said...

giusto! io credo di averne schivati un paio, mentre per altri più che subiti ne sono stata testimone (mmm ricordi dove stavamo a settembre dell'anno scorso!?!?)

11:40 AM  

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