Saturday, September 30, 2006

torbide letture



Finalmente ho recuperato in biblioteca il romanzo di James Ellroy, Dalia Nera.
Di Ellroy ho letto L.A. Confidential (adorando sia il libro che la versione cinematografica), American Tabloid (affascinante viaggio all'interno della cospirazione che ha cresciuto l'America degli anni '50), Clandestino, Sei Pezzi da Mille, Corpi da Reato e il racconto I ragazzi del coro all'interno della raccolta Il lato oscuro.
Amo molto questo autore e spero di riuscire a finire il libro prima di andare a vedere il film, così da poterli gustare entrambi e farmi tutti i miei bei trip mentali da cinefila e bibliofila.
Ora però scappo: sono appena a pagina 45, ho molta strada davanti a me...
(ps: sono convinta che nella biblioteca della mia città ci sia una cospirazione contro di me perché è da più di sei mesi che qualcuno mi precede quando cerco un libro.....da questo si deduce la mia malsana passione per The X-Files).

Thursday, September 28, 2006

Desperate House...

Tornavo a casa ieri sera da Milano (ebbene sì sono rientrata di diritto nel fantastico mondo dei pendolari) con un unico pensiero: House! Inteso sia come “finalmente torno a casa”, sia come finalmente mi vedo uno dei migliori telefilm prodotti ultimamente. (se poi contiamo che subito dopo House ci sarebbe stato Prison Break…una pacchia!)
Dunque, ero pronta alle 9 per rilassarmi davanti alla tv…eppure, nonostante fossi contenta di vedere finalmente il mio medico televisivo preferito (in genere non sono contenta di vedere i medici) c’era qualcosa che non quadrava, una strana sensazione di disagio.
Dopo una serie di fumettistici “mumble mumble” ho finalmente capito dove stava il problema: il promo.
Ebbene sì, Italia1, ma la tendenza è generale, è stata toccata dalla rivelazione Auditel che ha fatto scoprire come i telefilm stiano finalmente ritornando in auge con una folta schiera di appassionati telespettatori, una sorta di lenta rivincita sui reality e quant’altro. Everything is illuminated, direbbe Elijah Frodo Woods nell’omonimo film di Liev Schreiber.
Italia1 ha pertanto pensato di mandare in onda un promo della serie sottolineando come “tutta la città ne parli”.
Mi sembra un tantino ipocrita.
Ora, che la televisione viva sugli ascolti non lo si mette in dubbio, nemmeno che possa fare quello che vuole con i palinsesti, ma per me, appassionata di telefilm e cinema (nonché come già detto in questo blog, videoregistratore addicted) questo è poco professionale. Vantarsi di uno show come fosse una propria creazione quando invece è stato solo acquistato e poi sparso per il palinsesto (House doveva andare in onda domenica poi è stato spostato a mercoledì) senza alcuna logica, non è semplicemente corretto. Già nel corso del Telefilm Festival di due anni fa erano molti gli addetti ai lavori a giudicare positivamente la serialità americana e il nascere di riviste dedicate al settore ne è un ulteriore prova.
Eppure questo nuovo “orgoglio paterno” di Italia1 non credo salverà questo genere di prodotti televisivi (ma credo anche i film) dall’essere utilizzati come “tappabuchi strategici” in attesa del nuovo reality o show da combattere sul piano degli ascolti. Anzi, non mancheranno le accuse quando avranno la bella idea di mettere un telefilm, “sangue e violenza” (per così dire) in fascia protetta solo perché la protagonista è un’adolescente (sì, sto parlando di Buffy, senza esserne appassionata la storia della sua programmazione è emblematica)
Pertanto, dopo questo sfogo, armiamoci ancora di pazienza e, cosa ancora più importante, di una scorta di vhs vuote.

Saturday, September 23, 2006

Le radici dell'odio

In un palinsesto ormai devastato da reality (dei quali la sottoscritta non critica l'esistenza bensì là sovrabbondanza) si affaccia violento sul piccolo schermo grazie a La7 il film di Alan Parker Mississippi Burning.
Nel 1964 due agenti dell'FBI vegono inviati in un paesino del Mississippi per indagare sulla scomparsa di tre attivisti dei diritti civili, due ragazzi bianchi ed uno di colore. La cittadina del sud è pervasa dall'odio razziale e il Ku Klux Klan è insediato in ogni livello del potere nemmeno tanto velatamente. Film forse datato, ma pericolosamente attuale nel suo illustrare come l'odio è in grado di permeare la mente e il cuore di una comunità e di come sia in grado di farlo liberamente, senza freni. A metà film circa la moglie del vicesceriffo, nata e vissuta in quella città così simile a tante altre, spiega che l'odio non è qualcosa con cui si cresce, un mantra ripetuto così tante volte da dover diventare per forza vero.
In un tempo per noi ormai remoto persone come Hoover, Kennedy hanno vissuto e le loro azioni, le loro decisioni hanno avuto delle conseguenze che si pagano ancora oggi. Si chiamano giochi di potere e sono giochi che fanno male. Invece di parlare del film permettetemi di evocare un altro "fantasma", si chiamava Martin Luther King e nel 1963 (un anno prima rispetto all'ambientazione del film): ha detto un paio di cose:

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell'arroganza dell'ingiustizia, colmo dell'arroganza dell'oppressione, si trasformerà in un'oasi di libertà e giustizia.

Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi. [...]

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Martin Luther King, 28 agosto 1963, Lincoln Memorial (Washington)



Continuiamo a sognare....

intervallo


Thursday, September 14, 2006

deserto di celluloide

vista la perdurante, assoluta assenza di film decenti in tv (al momento la voglia di andare in videoteca è scarsa), prendo spunto dal post precedente (i due volti della giustizia) per segnalare qualche titolo interessante!
la spiegazione? seguite i link e capirete!
trovate i titoli nella colonna "fotogrammi", sperando di scrivere qualcosa asap!

i due volti della giustizia

Sono tornati ultimamente in replica su La7 gli episodi di Law & Order-i due volti della giustizia. Dovremmo essere tra la settima e la ottava stagione, (quella, per intendersi, dei “fidanzati eccellenti”, ovvero con Benjamin Bratt/detective Curtis, ex di Julia Roberts e Carey Lowell/ assistente del vice procuratore Jamie Ross, moglie di Richard Gere).
Law&Order è una di quelle serie che non stancano mai, dove una programmazione ballerina (che intendiamoci, è da maledire sempre e comunque) reca il danno minore. Mi soffermo qui sulla serie originale, tralasciando i vari spin-off che si sono succeduti: Special Victims Unit, Criminal Intent (la serie che forse si discosta di più dallo schema base lasciando spazio all'estro del detective interpretato da Vincent D'Onofrio), fino a Elevator Inspectors Unit, serie ambientata in un ascensore “ospitata” in un episodio dei Simpson (stagione 14 episodio 5, Helter Shelter, “Una casa subito” in Italia).
L'impostazione della serie è semplice: c'è un caso da risolvere, generalmente un delitto, seguito da una coppia di detective, che conduce solitamente ad un arresto. A questo punto avviene quello che si potrebbe definire il “passaggio di testimone”: il caso passa al vice procuratore distrettuale che si occupa di trattare il caso in tribunale. La serie, che ormai vanta 17 stagioni, ha visto passare diversi attori, come Chris Noth (diventato Big in Sex & The City o Jill Hennessy ora star di Crossing Jordan), a dimostrazione del fatto di essere un telefilm che non si regge tanto sul personaggio, quanto su altri elementi trasversali: la legge, la giustizia e la città, New York. Lo schema vecchia/nuova generazione replicato sia nella coppia di detective che in quella degli avvocati è lo scheletro che permette il ricambio dei protagonisti.
Due sono però gli attori simbolo della serie, il recentemente scomparso Jerry Orbach nei panni del detective pluridivorziato Lenny Briscoe (ora sostituito con l’attore Dennis Farina/ detective Fontana), e Sam Waterston (di cui cito il “cospiratorio” Capricorn One) nel ruolo del vice procuratore distrettuale di origine irlandese Jack McCoy. Pochi i riferimenti alla vita privata, i protagonisti si muovono sulle strade e nei tribunali traducendo nel linguaggio visivo e verbale il codice giuridico americano. Pur essendo “dalla parte della legge” i due personaggi incarnano meglio degli altri comprimari le contraddizioni sistema. Detective e avvocato di esperienza dimostrano spesso una certa elasticità nel condurre il loro lavoro: tra cavilli legali, bugie e sotterfugi più o meno gravi per indurre i sospettati a confessare (o a patteggiare) sono in fondo l’incarnazione del sistema legale americano, con le sue contraddizioni e garanzie. Di fronte alle idee personali (come a d esempio la posizione dei vari personaggi nei confronti della pena di morte) è la legge, il corpus giuridico a dover avere l’ultima parola, anche a scapito della eccezionalità dei casi.
Questo è lo stile, il pregio e il “difetto” della serie; lo spettatore assiste sempre dallo stesso punto di vista, quello della legge, che sia nelle forme del poliziotto o dell’avvocato, mai quello del criminale, della vittima o del testimone: è una visione per forza di cose unilaterale. Se errori giudiziari, condanne o proscioglimenti illegittimi ci sono, non è dato sapere con certezza. Nonostante si parteggi per McCoy non si può fare a meno di chiedersi se le sue conclusioni siano corrette, i suoi stratagemmi etici e il verdetto finale corrisponda alla verità.

Sunday, September 10, 2006

diavoli griffati vol. 2

Attenzione: il post contiene diversi particolari del libro

È un piacere quando un libro supera le tue aspettative. Osservando il tacco con forcone sulla copertina dell’edizione economica di The Devil Wears Prada (Harper), Il diavolo veste Prada in italiano, credevo di trovarmi di fronte una storia sulla falsariga di I love shopping o qualcosa del tipo: giovane fashion victim non esita ad uccidere pur di ottenere l’ultimo paio di stivali Prada (o Manolo Blahnik, illustre sconosciuto per me che non ho una cultura di Sex & The City). Grande (e dolceamara) sorpresa è stata trovarmi nel bel mezzo di un incubo lavorativo che, anche se ben confezionato da Versace e co., non si allontana di molto da quello che qualunque giovane che voglia iniziare a lavorare si trova, o si troverà ad affrontare.

Il libro di Lauren Weisberger racconta gli undici mesi di Andrea (anzi, Ahn-dre-ah) come assistente di Miranda Priestly, direttrice della rivista-bibbia della moda Runway (scappa!, un nome una garanzia). Undici mesi di regno del terrore dove ogni impiegato deve vestire alla moda, ha un sacro terrore del proprio capo (stile sindrome di Stoccolma) e dove nessuno sembra voler affrontare la realtà: ovvero che il capo è una sfruttatrice piena di sé e senza alcun diritto di comportarsi in quel modo. Perché il lavoro di Andrea è un lavoro per cui a million girls would die for (un milione di ragazze morirebbero per averlo), un lavoro che dopo un anno di umiliazioni le spalancherà le porte di ogni luogo lei voglia lavorare grazie ai contatti di cui Miranda dispone. Poco importa se per lavorare come assistente (leggi: fare un lavoro che non ha niente a che vedere con l’editoria. Sfido chiunque a trovarmi il nesso tra portare i vestiti del capo in lavanderia e la stesura di un articolo) devi smettere di: dormire, mangiare, avere contatti con chiunque al di fuori del tuo cellulare.
Al di là del mondo della moda del cui, al pari della protagonista, me ne importa poco o niente, è naturalmente nella rappresentazione del diavolo Miranda che ci si deve concentrare. Perché Miranda
(diversamente dall’Uomo Nero) esiste. Magari con un nome diverso o con altri accessori (come Barbie), ma esiste. Esiste in ogni contratto sottopagato, in ogni azienda/ ufficio che pretende un laureato in ingegneria nucleare per farsi prenotare un volo, esiste nelle richieste di disponibilità, flessibilità e nelle note di abbigliamento che oltrepassano spesso il senso della misura (dai, che non è molto professionale andare in ufficio in costume da bagno ci arrivano tutti, ma da qui a decidere la misura delle spalline di una canotta…). Niente di nuovo? Purtroppo no. Il problema però non è solo nell’esistenza di Miranda, il problema è che tutti vogliono essere Miranda. Perché la maggior parte di noi, dopo aver “lavorato” in quel modo, spera solo di avere successo per potersi finalmente rivalere sugli altri. Forse, se le giovani fanciulle di Runway per una volta si fossero presentate in massa in scarpe da tennis, si fossero messe in sciopero (una bella azione collettiva!), forse qualcosa sarebbe cambiato. O forse no. Però ci avrebbero provato, perché se questa è la condizione di lavoro, non necessariamente deve essere quella giusta. Ma vallo a spiegare per chi si danna per uno straccio di lavoro (me compresa). Mors tua vita mea…

Tornando al libro: ho letto la versione originale in una settimana, quindi credo che la lettura in italiano sia ancora più scorrevole. L’impostazione, come molti libri contemporanei, è molto cinematografica. Immersi subito all’interno di una scena di ordinaria follia, il racconto poi diventa fluido e colloquiale (come stare al telefono con un’amica che ci parla male del capo!). I personaggi sono ben delineati anche se spesso diventano stereotipi (l’affascinante scrittore, lo stilista gay), ma credo sia più dovuto all’ambientazione nella casa di moda che non a un errore della scrittrice. Il vecchio detto tutti noi indossiamo una maschera qui calza a pennello.
Il finale lascia ben sperare: non il classico happy ending (che in un libro del genere sarebbe stato come una T-shirt del supermercato su una gonna Chanel, visto come imparo in fretta!?!?), ma un finale ottimista, perché bisogna continuare a cercare, sperare e soprattutto perché non vale la pena farsi mettere i piedi in testa, anche se fasciati da un paio di griffatissime Manolo Blahnik
PS: chiunque abbia detto che per essere belle bisogna soffrire è un idiota, anzi un sadico idiota


Saturday, September 09, 2006

ora d'aria

Con qualche giorno di ritardo finalmente riesco a parlare di Prison Break, un telefilm che insieme ad House MD ha reso più interessanti le recenti serate televisive. Parte degli episodi della prima serie sono già stati trasmessi prima dell’estate e francamente non ho idea di cosa Mediaset voglia e possa trasmettere ora. La seconda serie è iniziata da poco anche negli Usa, quindi staremo tutti a vedere.

Per salvare il fratello (Lincoln Burrows), condannato a morte per l’omicidio del vicepresidente degli Stati Uniti, Michael Scofield si fa rinchiudere nella stessa prigione per mettere a punto un dettagliato e complicato piano di evasione. Non solo Michael è a conoscenza di ogni persona all’interno del carcere che possa essere d’aiuto al suo piano, ma come ingegnere ha avuto accesso alle planimetrie dell’edificio, che si è fatto tatuare sul suo corpo, insieme ad ogni singola informazione utile per portare a termine il piano.

La serie è interessante e intrigante per diverse ragioni. Prima di tutto c’è il tema del complotto (aria “fresca” per chi come me ha sempre X-Files nel cuore): Lincoln Burrows è l’uomo sbagliato nel posto sbagliato al momento sbagliato e qualcuno molto in alto (si scoprirà essere il vicepresidente degli Stati Uniti!) lo vuole morto per portare avanti i propri piani. C’è poi il microcosmo carcerario, con i suoi ruoli, le sue regole e una serie di meccanismi che se da una parte lo rendono l’inferno che è, lo trasformano in una sorta di labirinto dove il protagonista è in grado di muoversi e trarre vantaggio. Con l’eccezione di pochi personaggi, qui sono tutti cattivi, ma entrando nel meccanismo lo spettatore si rende conto, come il giovane Scofield del resto, di dover necessariamente fare affidamento su di loro e confidare nella loro buona sorte. Così nelle puntate in onda in questo periodo, non possiamo fare altro che sperare che Abruzzi (il mafioso che a inizio serie amputa un dito al nostro protagonista) riesca a mantenere i buoni rapporti con la “famiglia”, perché solo così il piano potrà andare avanti. Oppure dobbiamo accettare che T-Bag (in carcere per rapimento, violenza sessuale e omicidio) entri a far parte della squadra…

Naturalmente la parte del leone spetta al protagonista, Michael Scofield (interpretato da un bravissimo Wentworth Miller). Fratello esemplare, eroe senza macchia (come spiegherà lo psichiatra in queste puntate, è per lui necessario aiutare gli altri), trova nel suo corpo lo strumento per portare a termine il suo piano. A differenza di Leonard in Memento, di Christopher Nolan, costretto a tatuare il suo corpo per aiutare, senza un risultato “veritiero”, la sua memoria corrotta nella ricerca della soluzione del suo enigma, qui il corpo dipinto è il supporto, il primo aiuto alla soluzione del mistero. E non solo, enigmatico come gli occhi del suo proprietario, anche i suoi disegni devono essere interpretati, perché inseriti e mascherati da altri tatuaggi così da rendere ancora più difficile a coloro che non conoscono la verità, l’interpretazione del piano (e del suo ideatore).

Sperando che Italia1 non decida una programmazione a singhiozzi, non mi resta che tenere le dita incrociate e sperare nell’evasione del nostro eroe (e nella soluzione del complotto) prima del giorno dell'esecuzione…
The translation of this post is in the 1st comment

Wednesday, September 06, 2006

no comment

ancora nulla di nuovo da segnalare...
la lettura di The Devil Wears Prada procede spedita, credevo di trovarmi in un romanzetto con una tizia che smania per vestirsi griffata invece sembra quasi una fotografia (un po' patinata) di quanto spesso faccia schifo il mondo del lavoro oggi...(anche se sono ancora a metà: può succedere di tutto). Mi rifiuto di vedere qualunque filmato (escluso il trailer) o abbia a che fare con il film, che ancora non so se andrò a vedere, però voglio almeno finire il libro.
Ieri avrei voluto registrare Cantando dietro i paraventi, ma Rai3 ha deciso di fare la ritrosa ed è sparito il segnale...per questi due giorni mi consolerò con un po' di Highlander arretrato e le nuove puntate di Prison Break anche se spero in un raggio di sole largo 35 mm...non chiedo una prima tv, ma solo un film decente...
ancora un augurio a chi se ne sta a venezia in coda per la proiezione: vi invidio ma vi voglio bene!

Sunday, September 03, 2006

diavoli griffati

Considerata la mia assenza da Venezia, ho deciso di rimediare in qualche modo avvicinandomi ad uno dei film presentati: Il diavolo veste Prada, (The Devil wears Prada). Ecco perché ho deciso di recuperare il libro di
Lauren Weisberger, rigorosamente in inglese (a Venezia i film mica sono doppiati!).
Buona lettura a me e buona visione (con tanta invidia) agli abitanti del Lido!!!